Angela Costantino aveva bruciato le tappe. Si era sposata giovanissima, ad appena 16 anni. Quando di anni ne aveva compiuti 25, aveva già messo al mondo quattro figli. A vederla nell’unica foto che ne rimane, sembra davvero una ragazzina questa donna. Un velo di tristezza per una vita che non era stata esattamente quella che aveva sognato quando si era innamorata di Pietro. A lui si era concessa ancora ragazzina e probabilmente non avrebbe mai immaginato che, solo pochi anni dopo e ancora così piccola, sarebbe diventata una vedova bianca di ‘ndrangheta. Bianca, sì, perché suo marito era vivo, ma rinchiuso dietro le sbarre del carcere di Palmi, dove doveva scontare molti anni. Perché Pietro non era uno qualunque e la sua storia era nel suo stesso cognome: Lo Giudice. Tredici fratelli, figli del capobastone Giuseppe Lo Giudice, freddato in un agguato il 14 giugno 1990 ad Acilia. La mattina del 16 marzo 1994 Angela si sveglia all’alba. Ha in programma di fare visita a suo marito in carcere. È il suo ultimo giorno di vita. Da quel momento, di lei non si saprà più nulla per diciotto lunghissimi anni. A casa non c’è, i fornelli accesi e i quattro figli da soli che piangono. Un paio di giorni dopo, la sua Fiat Panda viene ritrovata a Villa San Giovanni. All’interno, in bella mostra, i documenti del servizio di salute mentale, da cui si evince il suo stato depressivo. Sembra che tutto torni: allontanamento volontario, forse addirittura un gesto estremo. Punto. Per i Lo Giudice la storia è chiusa. Una storia che non fa alcun clamore, non trova alcun risalto sui giornali. Niente di niente. Angela, 25 anni, madre di quattro figli, incinta e innamorata di un altro uomo, ha deciso volontariamente di abbandonare tutto, forse preda della depressione. E sarebbe rimasta questa la verità di questa storia se, a distanza di anni, qualcuno non avesse deciso di parlare, di raccontare la verità vera, quella che i Lo Giudice si erano tenuti dentro per tutto quel tempo. E a parlare sono diversi collaboratori di giustizia, che aiutano gli inquirenti a ricostruire i dettagli drammatici di quella vicenda ormai quasi del tutto dimenticata e che era stata archiviata nel 1998. Il processo porta all’accertamento delle responsabilità dei tre imputati. Nel febbraio del 2015 la Corte d’Assise d’Appello condanna tutti a 30 anni di carcere. Condanna confermata nel giugno dell’anno successivo anche in Corte di Cassazione. Le motivazioni della sentenza di appello sono agghiaccianti: "Vi è stata la maturazione del progetto criminoso, gelosamente custodito per non intaccare la serenità di Pietro Lo Giudice, e l’ideazione dello stato depressivo per gestire sulla misteriosa scomparsa l’ombra del suicidio. A ciò si aggiungeva un ulteriore pericolo: Angela Costantino conosceva partecipi e modus operandi della cosca e, se non tutti, almeno alcuni dei reati fine. Non era tollerabile che ella potesse sfuggire al controllo della famiglia esponendo quest’ultima al rischio della divulgazione dei segreti criminosi custoditi".